L’uomo che sto per presentarvi potrebbe essere definito un eroe. Nessuno potrebbe fare obiezione, tranne lui: «Non sono un eroe. Ho semplicemente detto di no ai mafiosi che volevano diventare i padroni della mia casa e dei miei soldi. L’ho fatto per difendere la mia dignità». Tiberio Bentivoglio è un piccolo imprenditore italiano minacciato dalla ’ndrangheta, la mafia calabrese. La sua storia attraversa tutti i pericoli di chi rifiuta il sistema criminale. È una storia fatta di minacce, furti, bombe, incendi, tentati omicidi, ma anche di coraggio e solidarietà. Una storia lunga trent’anni e che non è ancora finita.
In trenta anni, la piccola attività commerciale di Tiberio, la Sanitaria Sant’Elia a Reggio Calabria, si è trasformata in un simbolo della lotta contro il crimine. Quando, il 14 marzo 1992, qualcuno bussa alla porta del negozio per chiedere il pizzo, Tiberio si rifiuta di pagare. E, anzi, denuncia gli estorsori. Così, qualche settimana dopo, il 10 luglio 1992, arriva il primo attentato, sotto forma di furto. Tiberio e sua moglie Enza si spaventano, naturalmente, ma non per questo tornano indietro. Continuano a non pagare, a opporsi. E denunciano. «Ancora oggi faremmo la stessa cosa, forse saremmo ancora più determinati».
Passano anni di minacce. Il 5 aprile 2003 gli estorsori iniziano ad alzare il tiro e una bomba rudimentale devasta il loro negozio nel quartiere Condera della città. L’esplosione è un boato che sveglia tutto il quartiere. Quando Tiberio percorre il tragitto da casa al negozio, vede che dietro ogni finestra la luce è accesa. Eppure, nel quartiere in cui è nato e cresciuto, nessuno lo raggiunge per offrire aiuto o solidarietà. «Accanto a me, a mia moglie e ai miei figli non c’era nessuno. C’erano solo le forze dell’ordine». Al negozio i clienti cominciano a non andare più. Tiberio decide di andare avanti con la denuncia, lasciare il quartiere e trasferirsi altrove. Ma nessuno in città è disposto ad affittargli uno spazio.
Qualche anno dopo, nel 2010, i responsabili degli attentati e delle minacce vengono condannati e arrestati. È lui stesso ad additarli in tribunale durante il processo. Un anno dopo, per punire questo piccolo commerciante che non si arrende, i mafiosi puntano direttamente alla sua vita. Il 9 febbraio 2011 gli aggressori lo aspettano nel suo frutteto di campagna. Non appena scende dal furgone viene raggiunto alle spalle da sei colpi di pistola: tre proiettili vanno a vuoto, tre lo raggiungono. Uno al polpaccio, l’altro gli sfiora la spalla destra. L’ultimo viene ritrovato dalla polizia scientifica conficcato nel marsupio di cuoio che gli cingeva la schiena. Quel marsupio gli salva la vita. Tiberio viene ferito e trasportato all’ospedale. Ma è ancora vivo e decide anche lui di “alzare il tiro”: da allora denuncia ogni minaccia, entra a far parte dell’associazione Libera e contribuisce a fondare una rete antiracket “Reggio Libera Reggio. La libertà non ha pizzo”.
Siamo arrivati al tentato omicidio. A Tiberio viene assegnata una scorta per proteggerlo e, nel 2015, gli viene finalmente dato in affitto un bene confiscato per riaprire la sua sanitaria. La ruota sembra girare. I locali sono sul Corso Vittorio Emanuele, lungo la strada che costeggia il lungomare di Reggio. In pieno centro città e, soprattutto, dentro un bene confiscato alle mafie. È il primo imprenditore in Italia a farlo.
Dopo un anno e mezzo di lavori per mettere in regola i locali, dove i mafiosi avevano costruito abusivamente, a marzo 2016 è pronto per inaugurare la sua sanitaria. Ma a due settimane dall’inaugurazione, nella notte tra il 28 e 29 febbraio 2016, qualcuno appicca il fuoco nel magazzino in cui è depositata quasi tutta la merce, pronta per essere trasferita nel nuovo locale. L’incendio è devastante e distrugge quasi tutta la merce. In poco tempo, un comitato di solidarietà raccoglie 67.000 euro per ricomprare la merce e Tiberio riesce ad allestire gli scaffali del negozio. «Ora ci dobbiamo lasciare alle spalle la puzza di bruciato», pensa Tiberio mentre apre le porte del suo negozio alla città.
“Tutto è bene quel che finisce bene” recita un antico proverbio. Ma questa storia non è finita, e non sembra voler finire affatto bene. Oltre alle minacce e alle bombe della mafia, purtroppo, Tiberio deve combattere anche contro i pignoramenti e i blocchi bancari. Inadeguatezza, ritardi, lentezza burocratica, provvedimenti ingiusti. «Per cercare di portare avanti la mia attività d’impresa non solo devo fare fronte alla diffidenza di molti miei stessi conterranei, agli impegni assunti con i fornitori e con il sistema bancario (che mi ha iscritto in CAI), ma mi trovo a contrastare con lo stesso Stato che dovrebbe essermi di supporto e venire in mio aiuto».
Il suo debito con l’Erario si è decuplicato e lo Stato lo tratta come se fosse un qualunque contribuente che arbitrariamente ha deciso di non pagare. Non tiene conto dei gravi ritardi con cui riceve gli aiuti dello Stato e della loro insufficienza. I debiti non sono dovuti al fatto che Tiberio non è più un buon commerciante, ma al fatto che 7 attentati e i ritardi degli aiuti statali lo hanno messo in ginocchio. Un esempio: se la mafia fa un danno di 100.000 euro, lo Stato invia un aiuto di 40.000 o 50.000 dopo 3 o 4 anni. In Italia esistono leggi in favore di chi denuncia, ma – dice Tiberio – «non tengono quasi mai conto del fatto che un imprenditore vuole testimoniare contro la ’ndrangheta per tornare a fare il suo lavoro, non per essere un eroe. Se chiuderò, chiuderò per mancanza di Stato, non per la ‘ndrangheta».
Sommerso dalle tasse e con il rischio di perdere la sua casa che è già in vendita all’asta, Tiberio ha scritto una lettera al capo dello Stato, chiedendo un incontro al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Gli scrive per metterlo a conoscenza del fatto che in Calabria, dopo 30 anni di lotta, c’è un imprenditore che non solo non ha avuto giustizia, ma si vede oggi assalito dallo stesso Stato che dovrebbe proteggerlo. «Lo Stato deve mostrare i muscoli, far vedere che mi sta accanto. Chiedo quindi di azzerate i miei debiti, contratti per continuare a lavorare malgrado le bombe e la merce distrutta, e di annullare l’ipoteca sulla mia casa». Finora non ha ricevuto nessuna risposta.
«Denunciare è democrazia, ma perdere tutto per averlo fatto è un’assurdità che provoca più dolore dei proiettili».

articolo pubblicato su Tutto italiano