In ricordo di Bahram, l’ultimo curdo di Riace

Pochi giorni fa ci ha lasciati Bahram Acar. Uno dei primi curdi sbarcati a Riace, l’ultimo ad andarsene. Non aveva nemmeno sessant’anni.

Schiena dritta, mani intrecciate dietro. Occhiali da vista. Bahram Acar era curdo, veniva dalla Siria, era del Pkk. Ed è stato la memoria storica dello sbarco del ’98, quello che ha dato l’avvio all’esperienza di Riace, perché quella notte si trovava su quel veliero.

Quando si è ritrovato su quella spiaggia, mi ha raccontato, non avrebbe mai immaginato che ci avrebbe passato il resto della vita. «Ero stravolto dal viaggio e mentre guardavo queste montagne mi sono chiesto: che posto è mai questo, è questa l’Europa? Il panorama mi ricordava casa, ricordo ancora la sorpresa».

Così è nata l’accoglienza a Riace. Quei curdi si sono fermati e per tre anni hanno sperimentato l’accoglienza spontanea, dal basso. Senza finanziamenti pubblici, senza una lira, solo risistemando e riabitando le case lasciate deserte degli emigranti riacesi in Argentina, negli Stati Uniti, o nel resto d’Italia. 

Per tre anni, dal 1998 al 2001, Riace è un cantiere a cielo aperto. Accoglienza allo stato puro. 

Quelle ore rimarranno incise negli occhi e sulla schiena di Bahram. «Siamo partiti da zero, non c’era niente qui. Al mio arrivo tutto il paese era rotto e abbandonato». 

Era un tipo silenzioso Bahram ma non dava mai l’impressione di non voler parlare. E infatti, dopo una pausa e qualche boccata alla sua sigaretta, riprendeva indicando le case intorno. «Non avevamo niente. Ricordo che una volta per cominciare i lavori abbiamo fatto una colletta per comprare i materiali, la pittura e il resto, anch’io ho messo 50mila lire. All’inizio nessuno credeva che saremmo arrivati a questo punto», sorrideva Bahram mentre eravamo nella piazza del “Villaggio globale”.

E si soffermava sulla locanda: «Questo ristorante l’ho costruito anch’io con le mie mani e così anche Palazzo Pinnarò e altre case. Avevo paura a togliere le solette, temevo cadessero le case. Sono un fabbro e carpentiere ma quando rompevo questi muri avevo paura! E invece guarda che bello adesso». 

I bambini correvano e urlavano tutto intorno, riuscivamo a sentirci a malapena: «Ecco – commentava – noi aggiustiamo case per questa gente qua. Qui in Italia come la chiamate? Fratellanza».

Quanti silenzi felici, quante parole allegre, quanti gesti di cortesia. Quanti caffè e quante sigarette mi hai offerto, amico mio? 

Quanti “come stai” ti sei preoccupato di inviarmi, anche quando la crudeltà di questo tempo è riuscita a compiere quel che nessuno era riuscito a compiere per decenni: portarti via da Riace. 

Buon viaggio Bahram, sono certa che da qualche parte ritroverai le nostre amate montagne. Così lontane eppure così uguali, proprio come noi. 

Radio Radicale, intervento di Bahram Acar, Riace il 6 ottobre 2018

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